II cinema asiatico, in particolare quello dell’Estremo oriente, ha conquistato in questi ultimi trent’anni un posto anche sugli schermi occidentali, rivelando una ricchezza non inferiore a quella del cinema europeo.
Anche se parlare semplicemente di “cinema asiatico” è una generalizzazione che non rende giustizia alla diversità di stili e caratteristiche che contraddistingue ogni Paese: c’è il cinema cinese, quello giapponese, quello coreano (che ultimamente va alla grande) e così via, ognuno con le sue peculiarità (d’altronde, anche in Europa il cinema italiano è diverso da quello francese, spagnolo ecc…). Perfino il Bhutan negli ultimi anni si sta facendo largo con la sua cinematografia (basta pensare a “Lunana – Il villaggio alla fine del mondo”, candidato nel 2022 al premio Oscar come Miglior Film Internazionale e a “C’era una volta in Bhutan” che uscirà nei cinema il 30 aprile 2024, titolo originale “The Monk and the Gun”).
L’Asian Film Festival a Roma
In questo panorama, si sta facendo largo sempre di più l’Asian Film Festival il festival cinematografico – organizzato dall’associazione “Cineforum Robert Bresson” con la direzione artistica di Antonio Termenini – che da ventun anni porta in Italia il meglio del cinema dell’Estremo Oriente, permettendoci di conoscere storie, registi e attori di un altro mondo.
Il primo festival organizzato dall’associazione è stato il Taiwan Film Festival nel 2002, che dall’anno successivo è diventato Asian Film Festival ma dal 2006 al 2010, grazie al sostegno delle ambasciate italiane nei paesi dell’Estremo Oriente, il Cineforum Robert Bresson è riuscito ad organizzare rassegne di cinema e cultura italiana in Indonesia (2006), in Vietnam (2007), in Malesia e Thailandia (2008) e in India (2009). Dal 2011 è tornato di nuovo in Italia, portando da noi il migliore cinema orientale.
La XXI edizione si tiene al Cinema Farnese Arthouse di Roma.
Oggi, i paesi partecipanti sono: Corea del Sud, Giappone, Cina, Taiwan, Hong Kong, Malesia, Singapore, Indonesia, Vietnam, Thailandia, Filippine e, per la prima volta, il Nepal.
Il festival prevede anche un concorso a cui partecipano sedici film, in gara per i cinque premi assegnati da una giuria di critici cinematografici: al miglior film, miglior regista, miglior attore, miglior attrice e film più originale in concorso. C’è anche una seconda sezione chiamata “Newcomers”, nata per presentare otto film di registi debuttanti e nuovi talenti. Inoltre, ogni anno il Festival dedica una retrospettiva ad un maestro del cinema orientale: omaggi sono stati riservati a Wang Xiao.shuai, Tsai Ming-liang, Hou Hsiao-hsien, Chen Kaige, Ann Hui, Brillante Mendoza, Jia Zhang-ke, Stanley Kwan, Peter Chan, Shinya Tsukamoto, Emily Tang.
“In questa edizione di Asian Film Festival, attraverso una selezione accurata e non facile, superati i tempi del Covid e vista la moltiplicazione delle opere sul panorama globale, abbiamo cercato di mettere in piena luce la capacità dei produttori dell’Estremo Oriente di aver inventato nuove forme di coproduzione, non solo tra Paesi limitrofi, o comunque, dell’area, il che ci ha permesso di scoprire nuovi talenti o di consolidare lo status, sia autoriale che di mercato di tanti altri. Coproduzioni che coinvolgono Paesi tra di loro molto diversi, per storia, religione, posizionamento geopolitico, tradizioni cinematografiche, forme di espressione artistiche. Un segno di grande coraggio, di innovazione che non ha pari al mondo. E che parte dai tanti fondi di sviluppo per arrivare, poi, alle vetrine dei festival di cinema più importanti al mondo. Tra le opere di punta ci piace segnalare Inside the Yellow Cocoon Shell (Pham Thiên Ân), Camera d’Or al festival di Cannes, Love Is a Gun (Lee Hong-Chi), Leone d’Oro del Futuro al Festival di Venezia, Last Shadow at First Light (Nicole Midori Woodford), Tomorrow Is a Long Time (Jow Zhi Wei), Snow in Midsummer (Chong Keat Aun, e Oasis of Now (Chia Chee Sum)”.
Antonio Termenini
Altra caratteristica del festival sono le giornate a tema, che aiutano proprio a raccontare quelle peculiarità dei vari Paesi cui accennavo prima, dedicate ai Paesi che meglio si sono distinti per l’originalità e il dinamismo delle proprie cinematografie, organizzate grazie al sostegno e al coordinamento di Ambasciate, Istituti di Cultura, Film Commission e Agenzie governative dei paesi dell’Estremo Oriente. Quest’anno i tributi saranno a Thailandia, Corea, Giappone e Vietnam. Importanti anche gli ospiti di punta attesi: il regista giapponese Shinpei Yamasaki per The guilt and the other stories, la vietnamita Nguyen Thi Truc Quynh, protagonista di Inside the yellow cocoon shell e il regista di Lesson, Kim Kyung-rae, primo ospite coreano nella storia dell’Asian Film Festival.
A questo link trovate il programma completo del festival.
Quest’anno ho avuto il piacere – e la fortuna – di partecipare alla serata inaugurale del festival e di assistere, oltre che alla cerimonia di apertura, alla proiezione di Shadow of Fire (titolo originale: Hokage) – in lingua originale coi sottotitoli in italiano – film di Shinya Tsukamoto, regista giapponese, uno dei più amati registi del cinema asiatico contemporaneo, citato per la sua influenza da registi occidentali come Quentin Tarantino, David Fincher, Darren Aronofsky e i Wachowski e che ha recitato anche in molti film – oltre a ritagliarsi sempre una piccola parte nei suoi film – anche di Scorsese.
Qui potete vedere il trailer del film.
Terzo film della sua trilogia sulla violenza (i primi due sono Fires on a plain e Zan), è ambientato in una città che ricomincia a prendere vita dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale, dopo aver subito un bombardamento incendiario che l’ha rasa quasi completamente al suolo, Shadow of Fire è un lungometraggio duro, che racconta senza sconti la vita dopo la guerra e parla di traumi, desideri di vendetta, ombre che si annidano all’interno della mente di chi è riuscito, nonostante tutto, a sopravvivere alla guerra. Il protagonista è un bambino e seguendo la sua storia di sopravvivenza sembra di assistere a due diversi film: il primo, più buio, claustrofobico, ambientato tutto in una sola location – un vecchio locale quasi completamente distrutto dal fuoco – e il secondo, il racconto di un lungo cammino tra boschi e paesi verso la vendetta di un uomo ambiguo. Volendo, si può parlare anche di un terzo film: la parte finale, quando il bambino torna nel mercato nero del paese per ricominciare in un nuovo modo. La parte più dura del finale è lasciata ad un solo suono e all’immaginazione, scelta che personalmente ho apprezzato.
Il film ha un inizio lento, per poi accelerare nella seconda parte, anche se tiene incollati allo schermo per il timore sul destino del bambino. Tsukamoto presenta i pochi personaggi con estrema sensibilità ma affronta in modo accorato i temi dei postumi della guerra. L’ingenuità e la dolcezza di un bambino rimasto orfano che deve sopravvivere, si scontra con la durezza dei traumi degli adulti, su cui la guerra ha lasciato vuoti incolmabili e profonde ferite.
E’ un film potente e spaventoso, con un sonoro d’impatto, una fotografia perfetta (un lavoro egregio su fuori campo e tagli all’inquadratura).
Un film che penetra l’immaginazione ed entra nelle ossa con tutta la forza di una speranza rotta.